Ho iniziato a scrivere un diario alimentare per tenere memoria non tanto di
quello che mangio ma delle ragioni che mi inducono a mangiarlo. Per fare spazio
al bisogno del cibo emotivo invece di negarlo. Per creare un altrove in cui
farlo defluire. Per elaborare strategie che riempiano il vuoto, quando
arriva.
E il mio diario è diventato subito estetico, da manuale. Niente biscotti fuori posto, niente formaggini rubati, niente sacchetti di prugne svuotati nel dopocena. E ho iniziato a grattare altrove.
Un cucchiaino di zucchero che prima non mettevo. Una porzione più abbondante che prima non mi andava. La mentalità della persona a dieta che si sta impossessando di me. La paura del cibo e l’urgenza di essere brava.
E il mio diario è diventato subito estetico, da manuale. Niente biscotti fuori posto, niente formaggini rubati, niente sacchetti di prugne svuotati nel dopocena. E ho iniziato a grattare altrove.
Un cucchiaino di zucchero che prima non mettevo. Una porzione più abbondante che prima non mi andava. La mentalità della persona a dieta che si sta impossessando di me. La paura del cibo e l’urgenza di essere brava.
Questa la facciata. E sotto un rovello, un’uggia, un’ansia che divora. Una
nottata ai due estremi del letto a ruminare domande legittime, risposte
plausibili. Risposte implausibili, domande oziose.
Un terrore di non essere, o di esserlo ma non abbastanza. Di arrivare col
fiato grosso, di dover nascondere una vescica dolorante. Un veleno
nell’acqua di cui sono fatta, l’incapacità di godere di un progetto senza
farlo più grande, senza trasformarlo in un bene ad uso e consumo di molti, una
soddisfazione da condividere con troppi occhi assetati, una gioia prosciugata. Un lievito amaro caduto nel mio impasto che continua a inacidire
la pasta ogni volta che aggiungo una manciata di farina nuova.
Fame neanche a parlarne, anzi feroce nausea. Ma un bisogno di mangiare
costante, una sequenza infinita di pretesti e smascheramenti.
“Con la nausea mi fermerà lo stomaco”
“Scemenze, quando digiuni non ti serve fermare lo stomaco”
“Per star seduta a lavorare al computer sai quante”
“L’hai scritto sul blog che l’obiettivo era imparare a gestire i sentimenti,
e allora provaci a elaborare una strategia alternativa”
Ho aperto la porta, mi sono seduta su uno scalino come in un film western e
invece dell’orizzonte sconfinato ho fissato i miei ciclamini. Che con ventotto
gradi all’ombra non danno segni di cedimento.
“I fiori almeno ho imparato a curarli”
“Sciocchezze, non è questo il punto. I fiori non sopravvivono perché hai
acquisito chissà quale abitudine pratica o consapevolezza floristica,
sopravvivono perché li hai amati. Perché ti ha fatto piacere il curarli in sé. E
ti ha fatto piacere ogni volta che ne hanno avuto bisogno”
Non c’è stata volontà di ottenere altri fiori o l’etichetta del pollice
verde. C’è stato amore per una foglia rimasta sola per cui non potevo non fare
tutto quello che era in mio potere per dargli un’opportunità di sopravvivere.
Amerò anche me stessa, prima o poi. Nel frattempo ho comprato lo sciroppo
d’agave per sostituire lo zucchero.
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